Odio, violenza, terrorismo, stragi, femminicidi, infanticidi, morti ammazzati di ogni età, cultura, razza e religione. Siamo stanchi, siamo tutti stanchi, la sensazione è di stare su una giostra impazzita da cui nessuno ci permette di scendere. Piccole e grandi violenze si consumano sotto i nostri occhi sbarrati, nelle nostre case, nei nostri condomini o in luoghi lontani e il rischio è di rimanerne assuefatti. Un veleno che, giorno dopo giorno, ci intossica il sangue, ci toglie l’ossigeno, risveglia l’ombra che si annida nel nostro animo e ci fa essere tutti un po’ più morti e un po’ meno vivi.
L’unica valvola di sfogo che sembra rimanerci è quella degli stati sui social, più o meno esagerati, più o meno drammatici, più o meno addolorati, più o meno violenti. Perché in fondo è su quel più o meno che ci muoviamo, in bilico su un burrone, le gambe ormai malferme, disposti a tutto pur di non precipitare.
Forse questo mondo post-moderno è davvero impazzito o forse è solo che la tecnologia e i mezzi di informazione ora viaggiano a livello mondiale, in tempo reale, con il risultato sì di tenerci informati, ma in quello che ormai è un vero e proprio bombardamento mediatico, una bolgia infernale dantesca dalla quale vorremmo solo uscire. Possibile che con tutta la tecnologia non ci sia un tasto play, da pigiare all’occorrenza, per far cessare tutto questo? Nemmeno un tasto pausa, giusto per darci il tempo di respirare? No, non c’è.
Io scrivo libri, una soluzione non ce l’ho, altrimenti farei altro. Mi verrebbe da dire che una soluzione nemmeno c’è, ma una parte di me si rifiuta e forse si rifiuterà sempre anche solo di pensarlo. Però è tutto troppo grande, come si fa a cambiare qualcosa? Da dove si comincia? Come si fa ad arrestare manualmente questa giostra fuori controllo? Non lo so. Ma di una cosa sono certa: su una cosa abbiamo potere, su una sola, forse non basta, ma su di essa possiamo agire e allora dobbiamo cominciare a farlo, se non altro per provare. Noi stessi.
Etichettare come folli quelli che compiono stragi, che ammazzano la ex o i propri figli ci fa continuare a vivere. Da una parte ci inquieta: un folle è una scheggia impazzita, come lo controlli? Dall’altra però ci fa sentire un po’ più normali nella nostra casa normale nella nostra città normale nella nostra vita normale.
È questo il primo errore. Il seme della follia è insito nell’essere umano, in ognuno di noi. Forse non prenderemo mai in mano un fucile per sparare in una scuola o in un centro commerciale, almeno lo spero, ma la violenza, come tutte le cose, ha una scala, si sviluppa su un continuum e il problema non sono gli estremi, ma quello che c’è tra gli estremi. Perché gli estremi sono evidenti, ma tutto il resto no, è sfumato, mascherato dietro maschere di normalità. E, che ci piaccia in noi, la violenza, la malvagità, la crudeltà sono parte dell’essere umano, sono parte di ognuno di noi, una parte pronta a venire a galla quando si presenti la situazione che può fungere da innesco. Può essere un trauma più o meno grande, può essere anche qualcosa di molto banale, ma molto spesso la causa ultima risiede nelle ferite narcisistiche e nelle conseguenze della separazione. Qui la psicologia ci viene in aiuto e, se non può fare nulla per fermare la giostra, può fare qualcosa per noi, nel nostro piccolo. Perché l’odio, la cattiveria, la malvagità sono contagiose e creano onde, come quelle che si allargano dal sasso buttato nell’acqua. L’odio ha una sua precisa frequenza, tutto È una frequenza misurabile e, come ci insegna la fisica, quando una frequenza ne incontra un’altra interferisce con quest’ultima: in maniera costruttiva, distruttiva o annullandola. In fondo è semplice fisica.
Allora qualcosa possiamo fare, ognuno nel nostro piccolo. Cambiare la nostra personale frequenza. Rintracciare le nostre proprie ferite narcisistiche. Lavorare sulle conseguenze che un attaccamento non sicuro (cfr. Bowlby, Ainsworth, ecc.) ha avuto sullo sviluppo della nostra personalità e su quello che, in fase di sviluppo infantile, ha influenzato il corretto passaggio attraverso la posizione schizoparanoide prima e depressiva poi (cfr. Klein). Perché, molto più spesso di quanto pensiamo, lì sono stati piantati i semi della nostra personalità, lì sono gli schemi che in età adulta ci impediscono di crescere e di saper accettare e gestire la separazione dall’altro, che si tratti del/della compagno/a, di un’amicizia o di altro tipo di rapporto. Non sappiamo gestire il distacco, viviamo la perdita ancora come se avessimo pochi mesi e stessimo sviluppando e introiettando il seno buono e il seno cattivo (cfr Klein).
Se da qualche parte bisogna partire, credo sia da qui perché è solo su noi stessi che possiamo agire. Non serve a nulla inorridire per le stragi e le violenze che vediamo scorrere in tv se poi basta un distacco, una separazione, un no a quelle che sono le nostre aspettative su qualcuno perché diventiamo boia e carnefici dell’altro, reo solo di non aver rispettato le nostre esigenze, il nostro bisogno di unità e non distacco dal seno materno. Quanti di noi in questo momento sono in questa fase? Tutti. Ognuno ha il suo proprio personale nemico a cui far pagare qualcosa e, pur di rendere l’angoscia da separazione accettabile, è disposto a tutto per giustificare la punizione inflitta. Perché si ha sempre bisogno di giustificarsi con se stessi, pena la distruzione del nostro fragile equilibrio.
Vogliamo davvero fare qualcosa per cambiare il mondo? Cominciamo da noi stessi. Cominciamo a scovare il nemico che è dentro di noi. Cominciamo a riconoscerlo e ad accettarlo. Cominciamo a smetterla di negare che sia così, sfidiamo noi stessi e rinunciamo a fornirci alibi. Affrontiamo la nostra ombra perché negarla serve solo a renderla più forte. Impegnamoci in questo. Forse solo così possiamo coltivare la speranza di cambiare qualcosa e, se alla fine non sarà servito a contrastare le guerre, le stragi e a rendere questo mondo migliore, almeno sarà servito a rendere migliore ognuno di noi, al di là di ogni illusione e di ogni finto buonismo.
Elisabetta Barbara De Sanctis